Parliamo di leggende

Venerdì 23 ottobre l’Associazione Hari e gli Amici della Scuola Latina di Pomaretto hanno organizzato una serata inserita in un programma di attività finanziate grazie alla legge 482/1999 sulla tutela e la promozione delle minoranze linguistiche dal titolo “Tesori e misteri. Alla scoperta delle leggende della Val Germanasca”. Hanno invitato anche me, Jenny e Leonora ad intervenire: di seguito vi lascio il discorso di Jenny e (se siete pigri!) il link a cui assistere in differita alla serata.
https://www.facebook.com/loradelpellice/videos/839237696829376

“Il progetto Valdesina nasce nel 2013 con lo scopo di presentare ai bambini del territorio alcuni aspetti del patrimonio culturale (favole e racconti fantastici da un lato, storia locale dall’altra) in una forma inedita e divertente, che potesse coinvolgere tutta la famiglia: idealmente infatti si sfrutta sia il meccanismo della pubblicazione a puntate tramite i post -prima settimanali e in seguito quindicinali- sia il momento di studio e preparazione dell’escursione con parenti e amici.

A tal proposito, abbiamo creato un contenitore virtuale che presentasse la descrizione del luogo, la sua geolocalizzazione, alcune brevi indicazioni per raggiungerlo e, ovviamente, delle foto e delle informazioni a riguardo.

Non sarebbe stato allettante per dei bambini se a guidarli fossimo state Leonora Camusso ed io, quindi ci venne l’idea di dare vita al personaggio di Valdesina attingendo alle nostre attitudini personali (Leonora è infatti un’illustratrice per l’infanzia, io ho un passato di educatrice in asilo nido e oggi mi occupo di realizzare pupazzi artigianali).

Ideato il progetto e confezionata la bambola, ci siamo messe a studiare il territorio, le sue storie e la sua Storia in un processo che definirei a cascata perché siamo partite da ciò che conoscevamo (per i racconti letti e uditi in infanzia o per le nozioni apprese a scuola e al catechismo) approfondendo sempre più e scoprendo anche molte cose dei luoghi che ci hanno dato i natali.

Inizialmente le escursioni per raccogliere i materiali da pubblicare online erano fatte in coppia, ma poi -complice il mio trasferimento fuori dalle Valli e i ritmi serrati di pubblicazione- abbiamo deciso di suddividerci il lavoro e muoverci autonomamente (oppure obbligando mariti e figli a seguirci). Il progetto è cresciuto con noi negli anni e se, in principio, ci eravamo spartite le aree di competenza in base a dov’eravamo cresciute, Leonora a Prarostino ed io a Luserna San Giovanni quindi una gravitando verso Germanasca e Chisone, l’altra verso la Val Pellice. In seguito, con l’arrivo del mio primogenito ci siamo spartite le zone in base a un principio coniato da Leonora che amo molto ed è “per prossimità al sole”, ossia dei luoghi più in quota si occupa lei, mentre io resto più a valle dove posso muovermi con la famiglia al seguito.

Per questo motivo, metto squisitamente le mani avanti sul fatto che mi troverei molto più a mio agio a parlarvi di leggende della Val Pellice, ma nel ragionare su questo mio intervento ho pensato di creare un ponte tra alcuni racconti della mia valle d’origine e quella che ci ospita stasera.

Negli anni abbiamo potuto leggere e raccogliere moltissime leggende del territorio che abbiamo definito nel progetto come le “Valli Valdesi”, ossia quella del Pellice, quella del Chisone e quella del Germanasca.

Si tratta di un territorio che, per noi valligiani è pieno di particolarità ed elementi tipici (ai limiti del campanilismo, a volte!) ma se lo si osserva da un punto di vista esterno è senz’altro venato da un substrato comune.

Se si esamina il corpus di leggende delle valli, possiamo suddividerlo in aree tematiche che riguardano principalmente: le fate, gli animali, le masche e gli stregoni, il diavolo, i tesori nascosti.

Elemento alpino, occitano e religioso, ovviamente valdese, definiscono l’area presa in esame e le analogie sono più evidenti tra le valli Pellice e Germanasca che, oltre e essere tra loro confinanti, si eguagliano in tutti e tre questi caratteri.

Abbiamo potuto notare una serie di topos leggendari, di somiglianze a volte parziali a volte più consistenti in alcuni racconti… Ci è capitato di dover scegliere tra due versioni: ad esempio per “Il Bial da Diaou”

di Perrero che ha una versione identica ambientata in frazione Rossenghi di Torre Pellice dove l’unica differenza è che il canale costruito dal diavolo da una parte richiede una settimana di lavoro, dall’altra una nottata; la scelta in questo caso è ricaduta sulla versione di Perrero perché il canale è fisicamente visibile, mentre nell’altra gabbato il diavolo, questi distrugge la sua opera (che infatti non esiste o non esiste più). Oppure, parlando di tesori, abbiamo le foglie secche di Massello che si trasformano in monete esattamente come le loro gemelle angrognine della frazione Rialh…(v. “Le monete incantate”

https://valdesina.it/2019/01/03/leggenda-le-monete-incantate-massello/) .

Oggi vorrei portarvi alcuni esempi senza indagare l’origine del racconto stesso, né le motivazioni di eventuali differenze tra le versioni… più che altro per non dilungarci troppo e certo non perché uno studio di questo tipo manchi d’interesse (rientreremmo qui in un’indagine di tipo antropologico che cedo volentieri a chi fosse eventualmente interessato!).

Per mio interesse personale, ho sempre amato particolarmente i racconti riguardanti le fate del folclore locale dette fantine. Già all’inizio del Novecento Jean Jalla, uno dei primi autori “raccoglitori” del patrimonio orale, le aveva identificate di origine celtoligure e oggi popolano il repertorio mitologico più squisitamente celtico (che noi oggi conosciamo principalmente nella versione irlandese quindi attenzione a non fare un gran minestrone). Che noi ci si riferisca a questo aspetto folcloristico del nord Europa, oppure si vogliano tirare in ballo le ninfe della mitologia greca o addirittura risalire indietro nella storia alla Old Europe di Marija Gimbutas e l’antica religione della Dea, è indubbio che le fantine siano il residuo di una credenza davvero arcaica.

I racconti di fate ci permettono di metterne in luce alcune loro caratteristiche che sono: un legame con le acque e le rocce, una predisposizione ad aiutare gli esseri umani negandosi solo in caso di offesa e la loro partenza dalle Valli a seguito appunto di un’offesa subita.

Proprio a partire da queste considerazioni, vorrei fare alcuni paragoni tra leggende della Val Pellice e della Val Germanasca che vedono le fate protagoniste.

Citerò i racconti con i titoli che compaiono sul sito di Valdesina, potete facilmente ritrovarli qui se avete piacere di leggerli ma sono certa che li riconoscete immediatamente anche se con un titolo diverso (tra l’altro, il titolo delle leggende… chi ha dato il primo titolo alla leggenda? Noi usiamo quelli più famosi o evocativi).

Cominciamo, dato il tema della serata su tesori e misteri, con “Le fate e le ricchezze nascoste”

leggenda ambientata sulla Strada Vecchia di Prali (luogo principe delle leggende della Val Germanasca perché moltissimi racconti sono ambientati lì): il tema è quello delle fate che aiutano gli umani, in questo caso due fate che confidano a una donna dove trovare la “ricchezza delle montagne” (la leggenda non specifica di cosa si tratti, se di una ricchezza materiale o di una conoscenza che rende ricchi). Inevitabilmente il valligiano sulle rive del Pellice penserà alle fate che avevano donato l’accetta d’oro da cui prendono il nome gli Appiotti di Torre Pellice oppure quelle della Sparea, regione sulle pendici del monte Vandalino che nulla ha a che vedere con l’acqua minerale, le quali seppur offese dal comportamento di un pastore sgarbato offrirono le loro ricchezze a chi invece le aveva sempre trattate con rispetto, prima di andarsene per sempre e devastare di grandine i loro bei prati.

Parlavamo della misteriosa ricchezza delle fate praline… si diceva che non viene specificata la natura di questa ricchezza: potrebbe trattarsi di oggetti magici o realizzati con metalli preziosi come i due esempi dell’altro versante appena citati, oppure qualcosa di diverso. Sulla stessa Strada Vecchia di Prali ritroviamo un’altra leggenda, “La corsa del cavallo”

dove una fata offrirebbe a un giovane a cavallo di spianargli la strada accidentata ma la cocciutaggine dell’altro la fa svanire nel nulla (lasciando la via sgangherata)… le fantine benevole che aiutano gli umani, ma sono assai suscettibili e si offendono facilmente, è un topos che va forte in entrambe le vallate. Ricordiamo le fate di Barma d’Aout, località in quota di Villar Pellice, che avevano insegnato agli umani a ricavare i formaggi dal latte ma poi se ne andarono per sempre senza rivelare come ottenere dal siero il miele e la cera (in questo caso la ricchezza è un sapere utile). Una ricchezza tangibile, la più classica cioè il denaro (e questo ci fa capire che la versione è meno arcaica) è quella intitolata “Il gattino nero”

e ambientata al Nido dell’Orso: una fata, prese le sembianze di un gattino, si reca tutti i giorni in visita da una pastorella di buon cuore che gli offre il latte appena munto. La fata lascia delle monete in segno di ringraziamento, ma l’improvvisa fortuna della giovane insospettisce la sorella scansafatiche che un mattino decide di fare cambio turno per la mungitura e scoprire il segreto dell’altra. Quando il gattino si avvicina per avere il solito latte caldo viene preso a pedate dalla ragazza, si rivela quindi per la fata che è e da quel giorno non si farà più vedere. Non esattamente un lieto fine.

Abbiamo un corrispettivo angrognino di questa leggenda, intitolato “La fata e i pidocchi” dove la fantina assume l’aspetto di una vecchina che si fa spidocchiare dalla buona pastorella e i doni che quest’ultima riceve non sono in questo caso tangibili, ma si tratta di bellezza e intelligenza (ricordate i doni delle prime due fate ne La bella addormentata nel bosco? Questo racconto termina pure con un finale simile alla favola di Cenerentola, quindi dobbiamo immaginare che si tratti di una versione recente e piuttosto rimaneggiata, ma è stata comunque raccolta da Marie Bonnet all’inizio del Novecento quindi merita di essere citata). Inoltre assistiamo di nuovo allo slittamento delle ricchezze delle fate che sono a volte tesori e monete, altre volte conoscenze e qualità personali.

C’è un corpus delle leggende con protagoniste le fate che parla però di una ricchezza inestimabile e assoluta: la vita umana.

Abbiamo visto all’inizio di questo discorso che uno degli elementi naturali costantemente legato alle fantine sia l’acqua. Le fantine abitano nei pressi dei corsi d’acqua (parallelismo con le ninfe greche, divinità delle fonti), ma nell’immaginario valligiano più ancora esse sono legate ai laghi.

C’è una leggenda molto simile, nel suo finale tragico, tra le due valli che c’interessano ed entrambe spiegano la toponimia del luogo: sono il lago dell’Uomo

per la Val Germanasca e il lago del Malconsej per la Val Pellice. Il topos è uguale: un uomo perde la vita per colpa della fata che vive nelle acque del lago alpino e il ricordo di questo evento segna il nome del luogo. Ma c’è una sostanziale differenza poiché, mentre nel caso del lago di Bobbio Pellice la fata è animata da cattive intenzioni e induce con la magia un giovane pastore a gettarsi nelle acque, i protagonisti della leggenda di Prali sono sinceramente innamorati. Non finisce bene neppure qui, abbiamo spoilerato: in questo caso la creatura del lago è vittima di un incantesimo che la tiene relegata alle acque che diventano di ghiaccio non appena qualcuno si avvicina alle rive. Un giorno un principe passa di lì, i due s’innamorano a prima vista e il giovane trova lo stratagemma per salvare la sua bella: si procura delle pecore che giungono dal Tibet (questa apertura sulla globalizzazione ci fa capire che questo elemento è moderno e probabilmente non originale) che resistono benissimo al freddo. Come gli elefanti di Annibale, di tutto il gregge ne sopravvivono solo due che riescono ad arrivare alle rive del lago; il principe sale in groppa agli animali che resistono al ghiaccio e riesce a salvare la sua innamorata. Purtroppo giunti a riva, si accorgono che uno degli animali è rimasto indietro, il principe non ha cuore di abbandonare la pecora che gli ha permesso di riuscire nell’impresa e si getta a salvarla. In questo modo però cade vittima dell’incantesimo del lago e affonda assieme ai due ovini; per la disperazione la giovane si getterà anch’essa nell’acqua e il nome del lago deriverebbe dal fatto che a volte si può vedere sul fondo la sagoma di un uomo abbracciato ad un animale.

Al di là della suggestione dei racconti (i quali hanno tenore diverso forse anche per la natura differente dei due laghi, uno aperto e dal tipico fondo alpino blu verde, l’altro scuro e rinchiuso tra le rocce), quello che c’interessa in questa disamina è il luogo in cui essi si collocano: l’altopiano dei Tredici Laghi e la Conca del Pra, perché qui sono ambientate due leggende che oserei definire gemelle, ossia la narrazione dello straripamento del Lago della Carota e quello del Lago del Pra.

Il Lago della Carota

è uno dei tredici dell’altopiano pralino, anche se oggi è ridotto praticamente ad una torbiera, ma -se dobbiamo dar credito alla leggenda- un tempo era molto più esteso e il suo straripamento aveva causato danni ingenti nella valle trascinando via case e distruggendo campi (cose con cui i valligiani devono convivere dai primordi, insomma). Lo stesso viene narrato sull’altro versante, quello di Bobbio: anticamente quella che oggi è la Conca del Pra era un lago, straripato in un disastro di cui si parla ancora ma che non si sa collocare nel tempo. La cosa davvero curiosa è, oltre alla somiglianza degli eventi -che può benissimo riferirsi a due fatti diversi tra loro ma con la stessa dinamica, trattandosi di contesti alpini simili- è l’elemento fantastico che ancora non è entrato in scena: in tutti e due i casi infatti, la popolazione riesce a trarsi in salvo grazie all’intervento di una o più fate che annunciano l’imminente catastrofe. Nel caso del Lago della Carota, la fata ha le sembianze di un grande uccello nero che gracchia: “Fuggite, fuggite, il lago della Carota è straripato!”. In Val Pellice sono un coro di fate a planare nella vallata gridando: “Scappate, scappate il lago del Pra è crepato!”.

Dall’esame di queste leggende, possiamo acquisire ancora due informazioni diverse sui racconti di fate delle Valli Valdesi: il primo elemento, in realtà una conferma rispetto un racconto già affrontato, è che le fate scelgono di manifestarsi agli uomini sotto forma di animali. Lo abbiamo visto con il gattino nero di prima, con l’attuale uccello che dà il titolo alla leggenda del Lago della Carota ovvero “La fata uccello” appunto e vi porto qui un ulteriore contributo perché le analogie non possono essere tralasciate. Il palcoscenico questa volta sono dei pascoli in quota a Massello, chiamati Prati Coulmian e la leggenda, dal titolo “Un brutto incontro notturno”

è la seguente: due montanari vi si recano per la fienagione, ma sul fare della sera -dopo essersi buttati esausti sul fieno per dormire- scorgono un uccello che vola su di loro e li chiama per nome. Quindi una volpe arriva di corso urlando: “Scappate, scappate!” (notare che la formula del monito è sempre la stessa) ma uno dei due crede si tratti di un’illusione dovuta alla stanchezza e si addormenta. L’altro invece resta sveglio e si accorge che poco dopo un’ombra scura si stende accanto al compagno (chi conosce le leggende valdesi ha subito riconosciuto un topos che con le fantine non ha nulla a che vedere ma che è celebre: si tratta del cialoun, la lince, che nei racconti tradizionali delle Valli corrisponde al babau per i bambini e la cui peculiarità era appunto stendersi accanto alle sue vittime per misurarne la lunghezza e valutare la fattibilità di un attacco… apro una parentesi sulla potenza di questo elemento narrativo della bestia feroce che prende le misure della preda addormentata se ancora oggi siamo disposti a credere alla leggenda metropolitana secondo cui i pitoni allevati in casa facciano altrettanto. E qui chiudo la parentesi). Torniamo ai nostri sventurati. La lince valuta di non essere abbastanza forte per l’aggressione e sparisce in cerca di rinforzi, l’uomo sveglio acchiappa il compagno e insieme fuggono, lasciandosi alle spalle un gran fracasso e molte grida. Al mattino, di ritorno sul luogo del misfatto, scorgono segni di lotta, ciuffi di pelo, ossa, tracce di sangue: segno della vendetta delle linci sulla povera fata-volpe che aveva permesso la fuga ai due.

Quindi, doppio elemento della trasfigurazione delle fate buone che salvano gli umani talvolta in sembianze di animali.

L’altro elemento -e con questo termino- dal confronto delle leggende sullo straripamento dei laghi è che la catastrofe idrogeologica sia opera delle fate stesse: non esistono fate malvagie nel folclore valdese (al più esseri magici cattivi sono le masche), ma si tratta di esseri suscettibili che si offendono facilmente… lo abbiamo visto ne La corsa del cavallo (dove tutto sommato semplicemente la strada rimarrà accidentata), ma anche negli esempi della Val Pellice in cui, prima di andarsene, le fate devastano ogni cosa. Ne abbiamo un esempio anche per la Val Germanasca e questa volta il movente è a sfondo passionale. Ne “Il nastro e il maleficio”

infatti possiamo osservare un aspetto oscuro delle fantine laddove un giovane innamorato viene munito di un incantesimo per convincere la madre, che non vede di buon occhio la sua relazione con una fata, a concedergli il suo consenso. Peccato che la magia prevedesse che la cosiddetta suocera dovesse finire carbonizzata a causa di un nastro da legare al collo e che il figlio se ne fosse accorto in tempo, ma quello che a noi interessa è l’epilogo della vicenda: la fata dal cuore spezzato e dalle maniere forti si offende con il suo innamorato, e per estensione con tutta l’umanità, e assieme alle sue simili fa armi e bagagli e se ne va, trascinando giganteschi scrigni magici pieni di ricchezze (fil rouge della nostra disamina) che però devastano ogni cosa che incontrano… quindi di nuovo la calamità naturale.

Alcuni racconti di fate forniscono perciò la spiegazione eziologica: sia della conformazione delle valli (non dimentichiamo che una delle origini della Rocca di Cavour è identificata come il residuo della roccia che si staccò dalla montagna causando lo straripamento del lago del Pra); sia di come l’uomo delle valli, e della Val Germanasca, non viva più in quella che si potrebbe definire Età dell’oro, quando umani ed esseri soprannaturali vivevano armoniosamente insieme e l’uomo era ricco di quella “ricchezza delle montagne” che le fate della Strada Vecchia di Prali non ci hanno voluto specificare.”

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